Principessa
Giacinta (1970). La narrativa ‘sperimentale’
di Rossana Ombres
Come già accennato in alcuni miei
articoli qui pubblicati, nel 1970 Rossana Ombres giungeva alla narrativa dopo
un lungo e laborioso esercizio di poesia che, senza chiudersi in quei calligrafici
e improbabili esercizi stilistici molto in voga a quel tempo con la poesia
ermetica epigonale italiana, si era lentamente insinuato, ‘osmotizzandosi’, nei
caratteri essenziali della sua scrittura narrativa[1]. Tuttavia,
la dimensione anche narrativa di alcune sue liriche, si pensi ad esempio a
quelle incluse in L’ipotesi di Agar (1968),
dimensione poi perfezionata in Le belle
statuine (1975)[2], ma anche nella sua opera
teatrale Orfeo che amò Orfeo (1975), in
cui lirica e prosa si alternano, facevano già presagire questa sua ‘conversione’
alla narrativa, cui Ombres si dedicherà in seguito in modo pressoché esclusivo.
Principessa Giacinta (1970), il suo primo romanzo, con cui tra
l’altro Ombres vinse il Premio Sila ad ex aequo con Loris Bonomi, fu dunque una
rivelazione ed ebbe un notevolissimo successo di critica[3].
Nell’assegnazione del premio la giuria, presieduta da Carlo Bo e composta dal
fior fiore della critica letteraria di quegli anni (vi presero parte critici del
calibro di Geno Pampaloni, Enrico Falqui, Angelo Maria Ripellino, Rosario
Villari e Walter Pedullà), motivò la premiazione affermando che nell’opera «traluce
la ricerca linguistica del più agguerrito sperimentalismo italiano»[4].
In realtà la formazione e la
maturazione stilistica di Ombres come poeta, dà un carattere più che sperimentale
al linguaggio narrativo ombresiano rispetto a quello adottato dalla coeva letteratura
neoavanguardista[5]. Il fatto è che la grande capacità
di controllo metrico e sintattico, insieme all’esuberanza dell’espressione e della
fraseologia ombresiana, arrivano ad un livello tale da esasperare e andare ben
oltre un suo presunto stile d’avanguardia, fondendo modi, stili e esperienze
intellettuali che, apparentemente distanti fra loro e spesso incompatibili, sono
invece il prodotto di un retroterra e di un bagaglio culturale talmente erudito
che, tra continui rinvii letterari e allusioni anche bibliche (talmudiche, a
volte) a sfondo simbolico e mitico, soltanto un lettore estremamente attento
può ricostruire in forma unitaria.
Ciò che maggiormente distingue lo
‘sperimentalismo’ ombresiano dalla narrativa sperimentalista di quegli anni è,
tuttavia, più che linguistico, di tipo culturale e tematico, come ebbe a dire
con acuta finezza Cesare Segre nell’elzeviro a lei dedicato alcuni giorni dopo
la sua morte[6].
La vicenda di Principessa Giacinta, narrata
rigorosamente in prima persona, e dunque in presa diretta, si articola
esclusivamente sul caos fisico e psichico di un misterioso personaggio (G), una
non più giovane intellettuale che, «chiusa al sole e all’aria» nel suo
appartamento romano, vive soltanto nel «regno del sotterraneo e dell’oscurità»,
come intelligentemente avvertì e comprese Giuseppe Del Colle all’uscita del
libro[7].
È dunque una programmata ‘discesa
agli inferi’, ossia un’aspirazione della protagonista ad immergersi nella
propria interiorità mettendo in atto quel processo interiore che, già teorizzato
negli anni Venti da Sigmund Freud con
il concetto di ‘pulsione di morte’[8] e ripreso da Georges Bataille con la
cosiddetta ‘poetica dell’informe’[9], è
stato in seguito ben interpretato e magistralmente esplicato da Camille Paglia
nel suo straordinario e originalissimo Sexual Personae[10]. Infatti,
per l’antropologa statunitense accade spesso che nella scrittura di donna il
corpo, o meglio, la sensibilità corporea, prenda il sopravvento e aspiri a tornare
all'indistinto organico della materia, quando l'ordine razionale e apollineo
cede alle forze caotiche e ctonie del dionisiaco, la razionalità alle istanze più
primitive e selvagge dell'eros inconscio.
Il romanzo, che come accennato potrebbe
apparire, sul piano della struttura e della story,
privo di organicità, in realtà è il pregevole risultato di una sottile e
provata sapienza letteraria: parola per parola, aggettivo per aggettivo, scarti
sintattici e continue digressioni formano un tessuto narrativo la cui trama,
specialmente nella prima parte, è pura invenzione linguistica, oltre che
tematica. Ed è in questa capacità inventiva che il critico Mario Lunetta individua
la formula capace di sintetizzare, con sufficiente correttezza, l’itinerario
intellettuale e creativo che Rossana Ombres percorre in questo romanzo. In
questa esuberanza e invenzione narrativa sta appunto quella che Lunetta
definisce ‘la ribellione fantastica’ di Rossana Ombres[11],
cioè un ‘eccessivo’ uso del fantastico[12] che
diviene modalità narrativa per dare progressivamente forma letteraria a un
delirio - in buona parte frutto di una mente fortemente schizoide -
costantemente in atto nella protagonista.
Principessa Giacinta, dunque, non è un’opera di facile lettura,
perché in essa vi si intrecciano il racconto di un percorso di vita, che si
delinea progressivamente dalle parole spesso sconnesse della protagonista, e la
minuziosa e maniacale descrizione del raggiungimento di una degenerazione
fisica e psichica che prendono corpo, indissolubilmente uniti, da una scrittura
rigorosa e calibratissima.
L’inquietudine femminile e la progressiva
perdita della propria identità, l’attrazione-repulsione verso la corporeità
sessuale e l’evasione nell’immaginario, son tutti temi che si poi riflettono, nella
scrittura ombresiana, nella condizione di auto-segregazione in cui si è posta
la protagonista, una giornalista scrittrice[13] che ora
soffre di una grave forma di agorafobia e di un’esasperante preoccupazione per
la conservazione della propria verginità, oltre ad essere gravemente afflitta
da complicate frustrazioni per una insoddisfatta aspirazione alla maternità e
dalla perdita di un manoscritto (da cui probabilmente sta traendo un romanzo
autobiografico).
Infine, portata alla
dissociazione da se stessa, assumendo sempre più regolarmente un’identità
alternativa nella figura di Katharina von Bora, l’ex monaca del Cinquecento andata
in sposa al riformatore Martin Lutero, la protagonista, di cui non si conoscerà
mai il nome, si trasforma, subisce una metamorfosi: assistiamo in tal modo ad
un’immersione in quello che l’antropologa statunitense Camille Paglia ha genialmente
definito l’elemento ctonio, da cui la donna (e qui il genere sessuato conta eccome)
riemergerà, infine, come rigenerata.
Nel corso del racconto emergono
poco a poco altri elementi che teoricamente potrebbero completare e definire
meglio il quadro, che però rimane indefinito. Ad esempio, si viene a sapere che
la protagonista ha avuto un incidente d’auto riportandone una grave contusione
cranica; che ha subito un furto nel suo appartamento che ha lasciato in lei i
segni di un’astiosa profanazione; che ha pratica di malattie, cure
farmacologiche ossessive e ospedali, oltre a cibarsi di ‘pappine’ e omogeneizzati
per neonati per prevenire o ritardare i segni dell’invecchiamento. Inoltre, i
rapporti che la donna intrattiene con l’esterno si limitano ad alcune lettere,
probabilmente mai imbucate, a brandelli di conversazione registrati col
magnetofono, a lunghe telefonate con un probabile sposo promesso (E) che
risponde, nel prosieguo del racconto, con voce sempre più fievole e sommessa.
Intanto, intorno a G, sui mobili, sui tendaggi, sulla scrivania e sulla sua macchina
da scrivere, cominciano lentamente a proliferare minuscoli insetti, esseri
vischiosi e retrattili (gli ‘scarabangeli’) che si annunciano con «gridetti di
barbagianni» e sembrano mossi da un’oscura determinazione a ridurre, giorno
dopo giorno, il suo spazio vitale. Se la materia del romanzo è così sfuggente e
gelatinosa[14], il linguaggio che lo
sostiene è tuttavia compatto e al tempo stesso prezioso e sottoposto ad un
rigoroso controllo.
Ma cosa fa Ombres quando, per la
prima volta in prosa, si occupa della condizione femminile, e per giunta di una
intellettuale, se non trascrivere minuziosamente le sensazioni di un corpo
sessualmente definito in un discorso narrativo?
Alla varietà di letture, se ne
potrebbe tentare anche una di tipo ‘mistico’, seguendo la nozione di ‘divinità
delle donne’ e le indicazioni elaborate dalla filosofa Luce Irigaray[15], secondo
cui nell’isolamento e nella clausura che la protagonista si è imposta si
celebra la divinità del proprio genere che, come esperienza specificamente
femminile, si rivela essere un trascendere i limiti dell’umano.
Il fatto è che dando forma
all’abietto, semiotico per eccellenza, con una particolare predilezione per gli
aspetti corporei e più viscerali del corpo femminile, Ombres si dichiara apertamente
contro quelle modalità religiose e poetiche del simbolico che, per Julia
Kristeva, sono i soli modi (patriarcali) di contenere l’abietto[16]. Ciò
significa che al suo esordio narrativo Ombres ha già ben chiaro che il punto di
partenza per una ridefinizione della soggettività femminile è una nuova forma
di materialismo da cui deve prendere forma un nuovo concetto di materialità
corporea, sottolineando la struttura incarnata e quindi sessualmente
differenziata del soggetto parlante. La narrazione in prima persona di Principessa Giacinta è, infatti,
saldamente legata all’influenza femminista di quegli anni, quando le donne,
rivendicando il loro diritto a rappresentarsi, lo fanno affermando
risolutamente la loro identità sessuata[17].
Ecco, dunque, che il monologo in prima persona di una protagonista donna
esclude, in Ombres, la costruzione di una narrazione coerente, e ciò dà anche
un’idea di ciò che significa, nella narrativa femminile, far uso del fantastico.
Tutto quel che vien detto dalla protagonista risulta, infatti, dubbio, a tal
punto che il lettore deve ricostruire in proprio quanto succede, ma con
l’ausilio di alcuni puntuali e costanti punti di riferimento, che Ombres, seguendo
quello che Diderot avrebbe chiamato l’‘ordine sordo’ dei temi, delle riprese e
delle variazioni, dissemina in tutta la trama del racconto dotandolo di
un’impressionante solidità architettonica[18].
Interessante, in tal senso, il
raffronto che l’italianista Danielle Hipkins propone fra Principessa Giacinta e Il
doppio regno, un’opera del 1991 di Paola Capriolo che, presentando
anch’essa un soggetto femminile all’interno di un luogo chiuso, ‘sacro’ e
misterioso, risulta tematicamente simile al romanzo ombresiano[19].
Anche se entrambi i romanzi hanno
forma diaristica, le due protagoniste contrastano tra loro per un differente
livello di autoconsapevolezza. Infatti, con paradossale chiarezza di
ragionamento la protagonista della Capriolo invita il lettore a desumere con
lei ciò che costituisce la sua esperienza passata e quella presente. Al
contrario, in Principessa la
protagonista ‘costringe’ il lettore a indagare sul suo presente e su ciò che è
stato il suo passato ma senza curarsene affatto. Inoltre, se nella narrazione
della Capriolo gli spazi fisici sono definiti e facilmente individuabili, in Principessa, dove la protagonista
trascorre la maggior parte del suo tempo in un appartamento a Roma o in una
stanza d’albergo a Venezia, questi due spazi si confondono fino a diventare la
stessa cosa, perché non v’è alcuna indicazione, né spaziale né temporale, dell’eventuale
passaggio da un luogo all’altro. Lo spazio ombresiano appare quindi - secondo
la brillante immagine offerta dalla dt. Hipkins - come un disegno di Escher,
ossia una struttura da sogno (quindi più mentale che reale) in cui uno spazio
interno si dispiega in un altro, senza che mai si possa essere consapevoli del
luogo fisico che il protagonista-narratore sta attraversando[20]. Lo
spazio diventa pertanto uno spazio per un’introspezione più intensa e per una
più serrata rinegoziazione dell’identità femminile, con la conseguenza, però,
che nel lettore rimane in sospeso, o viene messo in discussione, il confine
stesso che dovrebbe separare e far distinguere sanità mentale e follia. Quando
poi il lettore incontra la doppia identità della protagonista, quando cioè questa
si dissocia da sé e si identifica sempre più in Katharina von Bora, non può far
altro che prestarsi al ‘malvagio’ e irrispettoso gioco d’intelligenza che
Ombres mette in campo, obbligandolo a ricorrere alla storia e alla filologia
per spiegarsi la vicenda.
La donna che Rossana Ombres
esprime con Principessa Giacinta è,
dunque, una donna che ha perso la memoria, non distingue più la realtà dal
sogno e risulta, sostanzialmente, affetta da una schiacciante schizofrenia.
Inoltre, sembra che non abbia futuro, perché manca delle facoltà che possono
metterla in grado di superare questo continuo stato di prostrante delirio.
Ma in Principessa, secondo le eloquenti parole della giuria del Premio
Sila, si parla anche del destino comune dell’uomo contemporaneo, incapace di
riconoscersi nel mondo in cui è costretto a vivere[21].
Il romanzo è anche il racconto di
una creatività in crisi: gli ‘scarabangeli’, infatti, o ‘loro’, come li chiama la protagonista,
bloccano la sua scrittura e la sua lettura con il loro proliferare e dilagare
sui libri e sulla scrivania di lei. Pian piano questi esseri minuscoli
s’impadroniscono di tutti gli angoli della stanza, le imbrattano i libri,
s’insediano nella sua macchina da scrivere, nelle scarpe, nelle abatjour. Il
neologismo che Ombres adotta per designare queste creature (coniato in realtà
per L’ipotesi di Agar), le cui
mutazioni e migrazioni la protagonista guarda con un misto di orrore e di fascino,
rivela insieme il segno di un timore religioso per gli angeli custodi e un
senso di repulsione fisica per gli insetti. Ma, a ben vedere, anche qui
troviamo quel senso di ambiguità che denota un po’ tutta la scrittura
ombresiana di questo romanzo. La stessa ambiguità la ritroviamo, infatti, nella
rappresentazione del corpo e delle funzionalità corporee. A volte sembra si
tratti di una custodia da preservare a tutti i costi (come i gigli, simbolo di
purezza, di cui la protagonista si attornia), con un ossessivo rifiuto del
sesso e, accanto, una esagerata assunzione di farmaci il cui fine è soltanto
quello di contrastare il naturale processo di invecchiamento e di decadimento
fisico. Nello stesso tempo, però, la protagonista, dopo aver rifiutato e
fuggito la specificità del proprio corpo sessuato, assumendo l’identità di
Katherina von Bora, madre di molti figli e moglie premurosa dell’uomo che ha
lanciato la maggior sfida alla fede cattolica, manifesta un processo mentale
che denota una diversa concezione del corpo, non più di vergine ma di madre e
sposa[22]. È
qui, infatti, che la scrittura di Ombres comincia a far emergere un linguaggio
di tipo simbolico-religioso, che, come espressione del tentativo di una
riappropriazione del sé, trasforma il diario della protagonista in una
elucubrazione mistico-psicologica (con grande irriverenza sia per la religione
che per la psicanalisi) che trova la sua più consona e ideale espressione nel
‘puramente’ fantastico, come già la dt. Hipkins ha acutamente segnalato [23].
Sebbene Principessa Giacinta descriva minuziosamente lo stato di psicosi di
cui è vittima la protagonista, è ben lungi dall’essere il racconto di una fuga
dalla realtà, anche se dolorosa. É, piuttosto, l’espressione e la celebrazione
di un ‘infinito sé’ femminile, come la Hipkins ha mirabilmente definito il romanzo[24].
Infatti, anche se questo sé subisce perdite e traumi, Rossana Ombres non
intende affatto basare il suo romanzo su tali sofferenze. Rivelatore e
illuminante, in tal senso, può essere già il titolo: Giacinta (da ‘giacinto’),
nel linguaggio dei fiori significa ‘separazione’,
può anche significare ‘gioco’, ‘divertimento’. E che cosa fa Ombres, nel
manipolare abilmente le sue carte, se non dar vita ad un creativo sistema di
rimandi mnemonici in cui l’aspetto ludico ha una parte tutt’altro che
trascurabile? Principessa Giacinta
rimanda, infatti, al titolo di una litografia realizzata per una
rappresentazione teatrale dal pittore art nouveau Alphonse Mucha (che Ombres
inserirà poi tra le sue ‘cartoline’ di Le
belle statuine), in cui una regale e splendida dama, con alle spalle la
rappresentazione del cosmo, tiene in mano un astrolabio, strumento-simbolo dei
navigatori che indica la posizione delle stelle viste da una certa latitudine.
Uno strumento di calcolo, dunque, con cui i marinai potevano riconoscere la loro
posizione dalla disposizione degli astri, ma anche, e soprattutto, un
misuratore di relazioni armoniche che Giacinta (cioè Ombres) è in grado di
usare e ne è pienamente consapevole, come si vede dal modo sicuro ed elegante
con cui tiene in mano lo strumento.
Ma ‘principessa’, termine che
indica insieme lo status regale ma anche il genere del personaggio, significa
anche che i suoi poteri (di creatività) sono limitati dalla sua identità
sessuale. Tuttavia, il fatto che la protagonista del romanzo si sia autoreclusa
in uno spazio-recinto che è anche luogo protettivo, rimanda alla nozione di
creatività, ossia a uno spazio in cui dei mondi possono essere creati[25].
L’incanto della recinzione è, infatti, l’essenza di questo romanzo, e
l’ammissione esuberante della natura sessuata di questa recinzione alla fine
non può che condurre verso una più decisa uscita da questo recinto. Ed è ciò
che, con uno slancio di geniale creatività narrativa, Ombres riesce a fare:
attraverso l’uso del fantastico, con cui opera, all’interno del racconto, una
frammentazione della dimensione spaziale, Ombres rompe e travalica i confini
della narrativa canonica italiana. Ecco, dunque, che rompendo con le nozioni
spaziali di interno e esterno l’immaginazione femminile può trascendere i limiti
prefissati, e che questo ‘oltrepassare il limite’ del ‘recinto’ esistenziale
imposto dalla cultura patriarcale tradizionale emerge come un potente modello
per la scrittura non solo delle donne ma di chi ancora viene emarginato come
minoranza.
Il romanzo termina su un ultimo
brandello di frase della protagonista, che rimane in attesa di consumare
un’improbabile notte di nozze. Ma anche questa è una ‘ipotesi di Agar’, per
rifarci al titolo della raccolta poetica che precede Principessa Giacinta, che, a sua volta, rimane un’opera ‘aperta’ e
soggetta a una svariata gamma di significati. Una prova quindi di alta
complessità strutturale che, improntata sulla decostruzione della personalità
di un’intellettuale, senza però mai scadere nell’artificiosità fine a se
stessa, è un’ennesima prova dell’elegante e affascinante scrittura ombresiana,
davvero pazientemente e ‘scientificamente’ preparata da anni di sapiente
costruzione poetica[26].
Alphonse
Mucha,
Princezna Hyacinta
(the original lithograph was
printed in Prague,
1911)
[1] A.M. Morace, Orbite novecentesche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001,
p. 311.
[2] A
breve dedicherò un articolo alla poesia ombresiana (ndr).
[4] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile
nella storia di un premio letterario meridionale, Pellegrini, Cosenza 1997,
p. 124.
[5] Il
riferimento, ovviamente, è al Gruppo 63,
i cui nomi di punta erano Nanni Balestrini, Renato Barilli, Edoardo Sanguineti,
Carlo Porta, Luciano Anceschi, Alberto Arbasino, Umberto Eco e altri ancora. Al
convegno all’hotel Zagarella di Palermo, atto fondativo del gruppo (3-8 ottobre
1963), vi partecipò anche Rossana Ombres (ndr).
[6] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7
agosto 2009, p. 37.
[7] G. Del Colle, Il delirio oscuro di Rossana Ombres, in “Stampa Sera”, 20-21 marzo
1970, p. 3.
[8] Cfr.
S. Freud, Al di là del
principio di piacere, in Opere, v. IX, Bollati Boringhieri, Torino
1977, p. 193.
[9] Cfr.
G. Bataille, Informe, in
‘Documents’, 7, 1929 ; tr. it. a cura di Sergio Finzi, Documents, Dedalo,
Bari 1974, p. 165.
[10] C. Paglia,
Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti to Emily Dickinson, Yale University
Press, London
1990; tr. it. Einaudi 1993.
[11] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, in G. Grana (a cura di), Novecento.
I contemporanei, vol. X, Marzorati, Milano 1979, p. 10167.
[12] Cfr. D.E. Hipkins, Excessively
Fantastic? Rossana Ombres’s Serenata, in F.
Billiani, G. Sulis
(Eds), The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of
Narrative Traditions, Fairleigh
Dickinson University
Press, London 2007, pp. 188-209.
[13] E
qui l’accenno all’intertestualità è puramente autobiografico; cfr. M. Riparini, Ricordare Rossana Ombres (1931-2009). Verso
un’apertura europea del canone letterario italiano, Academia.edu, february
2014.
[14] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10164.
[15] L. Irigaray,
Femmes divines, in “Critique”, 1985,
p. 454.
[16] D.E. Hipkins, Contemporary
Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary
Space, cit., p. 170.
[17] R. Braidotti,
Nomadic Subjects: Embodiment and Difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia
University Press, New York 1994, p. 3 (tr. it. Nuovi
soggetti nomadi, a cura di Anna Maria Crispino, Luca Sossella Editore, Roma
2002 ; cfr. anche D.E. Hipkins,
Contemporary Italian women writers and
traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 170.
[18] I. Margoni, Rossana Ombres, in G. Grana
(a cura di), Novecento. I contemporanei, cit., p. 10170.
[19] D.E. Hipkins, Contemporary
Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary
Space, cit., pp. 172-173.
[20]
Ibidem, p. 172.
[21] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile
nella storia di un premio letterario meridionale, cit., p. 125.
[22] D.E. Hipkins, Contemporary
Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary
Space, cit., p. 173.
[23] Ibidem, p. 174.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem, p. 173.
[26] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10165.