venerdì 15 maggio 2015

Principessa Giacinta (1970). La narrativa ‘sperimentale’ di Rossana Ombres



Principessa Giacinta (1970). La narrativa ‘sperimentale’ di Rossana Ombres

Come già accennato in alcuni miei articoli qui pubblicati, nel 1970 Rossana Ombres giungeva alla narrativa dopo un lungo e laborioso esercizio di poesia che, senza chiudersi in quei calligrafici e improbabili esercizi stilistici molto in voga a quel tempo con la poesia ermetica epigonale italiana, si era lentamente insinuato, ‘osmotizzandosi’, nei caratteri essenziali della sua scrittura narrativa[1]. Tuttavia, la dimensione anche narrativa di alcune sue liriche, si pensi ad esempio a quelle incluse in L’ipotesi di Agar (1968), dimensione poi perfezionata in Le belle statuine (1975)[2], ma anche nella sua opera teatrale Orfeo che amò Orfeo (1975), in cui lirica e prosa si alternano, facevano già presagire questa sua ‘conversione’ alla narrativa, cui Ombres si dedicherà in seguito in modo pressoché esclusivo.
Principessa Giacinta (1970), il suo primo romanzo, con cui tra l’altro Ombres vinse il Premio Sila ad ex aequo con Loris Bonomi, fu dunque una rivelazione ed ebbe un notevolissimo successo di critica[3]. Nell’assegnazione del premio la giuria, presieduta da Carlo Bo e composta dal fior fiore della critica letteraria di quegli anni (vi presero parte critici del calibro di Geno Pampaloni, Enrico Falqui, Angelo Maria Ripellino, Rosario Villari e Walter Pedullà), motivò la premiazione affermando che nell’opera «traluce la ricerca linguistica del più agguerrito sperimentalismo italiano»[4].
In realtà la formazione e la maturazione stilistica di Ombres come poeta, dà un carattere più che sperimentale al linguaggio narrativo ombresiano rispetto a quello adottato dalla coeva letteratura neoavanguardista[5]. Il fatto è che la grande capacità di controllo metrico e sintattico, insieme all’esuberanza dell’espressione e della fraseologia ombresiana, arrivano ad un livello tale da esasperare e andare ben oltre un suo presunto stile d’avanguardia, fondendo modi, stili e esperienze intellettuali che, apparentemente distanti fra loro e spesso incompatibili, sono invece il prodotto di un retroterra e di un bagaglio culturale talmente erudito che, tra continui rinvii letterari e allusioni anche bibliche (talmudiche, a volte) a sfondo simbolico e mitico, soltanto un lettore estremamente attento può ricostruire in forma unitaria.
Ciò che maggiormente distingue lo ‘sperimentalismo’ ombresiano dalla narrativa sperimentalista di quegli anni è, tuttavia, più che linguistico, di tipo culturale e tematico, come ebbe a dire con acuta finezza Cesare Segre nell’elzeviro a lei dedicato alcuni giorni dopo la sua morte[6]. 
La vicenda di Principessa Giacinta, narrata rigorosamente in prima persona, e dunque in presa diretta, si articola esclusivamente sul caos fisico e psichico di un misterioso personaggio (G), una non più giovane intellettuale che, «chiusa al sole e all’aria» nel suo appartamento romano, vive soltanto nel «regno del sotterraneo e dell’oscurità», come intelligentemente avvertì e comprese Giuseppe Del Colle all’uscita del libro[7].
È dunque una programmata ‘discesa agli inferi’, ossia un’aspirazione della protagonista ad immergersi nella propria interiorità mettendo in atto quel processo interiore che, già teorizzato negli anni Venti da Sigmund Freud con il concetto di ‘pulsione di morte’[8] e ripreso da Georges Bataille con la cosiddetta ‘poetica dell’informe’[9], è stato in seguito ben interpretato e magistralmente esplicato da Camille Paglia nel suo straordinario e originalissimo Sexual Personae[10]. Infatti, per l’antropologa statunitense accade spesso che nella scrittura di donna il corpo, o meglio, la sensibilità corporea, prenda il sopravvento e aspiri a tornare all'indistinto organico della materia, quando l'ordine razionale e apollineo cede alle forze caotiche e ctonie del dionisiaco, la razionalità alle istanze più primitive e selvagge dell'eros inconscio.
Il romanzo, che come accennato potrebbe apparire, sul piano della struttura e della story, privo di organicità, in realtà è il pregevole risultato di una sottile e provata sapienza letteraria: parola per parola, aggettivo per aggettivo, scarti sintattici e continue digressioni formano un tessuto narrativo la cui trama, specialmente nella prima parte, è pura invenzione linguistica, oltre che tematica. Ed è in questa capacità inventiva che il critico Mario Lunetta individua la formula capace di sintetizzare, con sufficiente correttezza, l’itinerario intellettuale e creativo che Rossana Ombres percorre in questo romanzo. In questa esuberanza e invenzione narrativa sta appunto quella che Lunetta definisce ‘la ribellione fantastica’ di Rossana Ombres[11], cioè un ‘eccessivo’ uso del fantastico[12] che diviene modalità narrativa per dare progressivamente forma letteraria a un delirio - in buona parte frutto di una mente fortemente schizoide - costantemente in atto nella protagonista.
Principessa Giacinta, dunque, non è un’opera di facile lettura, perché in essa vi si intrecciano il racconto di un percorso di vita, che si delinea progressivamente dalle parole spesso sconnesse della protagonista, e la minuziosa e maniacale descrizione del raggiungimento di una degenerazione fisica e psichica che prendono corpo, indissolubilmente uniti, da una scrittura rigorosa e calibratissima.
L’inquietudine femminile e la progressiva perdita della propria identità, l’attrazione-repulsione verso la corporeità sessuale e l’evasione nell’immaginario, son tutti temi che si poi riflettono, nella scrittura ombresiana, nella condizione di auto-segregazione in cui si è posta la protagonista, una giornalista scrittrice[13] che ora soffre di una grave forma di agorafobia e di un’esasperante preoccupazione per la conservazione della propria verginità, oltre ad essere gravemente afflitta da complicate frustrazioni per una insoddisfatta aspirazione alla maternità e dalla perdita di un manoscritto (da cui probabilmente sta traendo un romanzo autobiografico).
Infine, portata alla dissociazione da se stessa, assumendo sempre più regolarmente un’identità alternativa nella figura di Katharina von Bora, l’ex monaca del Cinquecento andata in sposa al riformatore Martin Lutero, la protagonista, di cui non si conoscerà mai il nome, si trasforma, subisce una metamorfosi: assistiamo in tal modo ad un’immersione in quello che l’antropologa statunitense Camille Paglia ha genialmente definito l’elemento ctonio, da cui la donna (e qui il genere sessuato conta eccome) riemergerà, infine, come rigenerata.
Nel corso del racconto emergono poco a poco altri elementi che teoricamente potrebbero completare e definire meglio il quadro, che però rimane indefinito. Ad esempio, si viene a sapere che la protagonista ha avuto un incidente d’auto riportandone una grave contusione cranica; che ha subito un furto nel suo appartamento che ha lasciato in lei i segni di un’astiosa profanazione; che ha pratica di malattie, cure farmacologiche ossessive e ospedali, oltre a cibarsi di ‘pappine’ e omogeneizzati per neonati per prevenire o ritardare i segni dell’invecchiamento. Inoltre, i rapporti che la donna intrattiene con l’esterno si limitano ad alcune lettere, probabilmente mai imbucate, a brandelli di conversazione registrati col magnetofono, a lunghe telefonate con un probabile sposo promesso (E) che risponde, nel prosieguo del racconto, con voce sempre più fievole e sommessa. Intanto, intorno a G, sui mobili, sui tendaggi, sulla scrivania e sulla sua macchina da scrivere, cominciano lentamente a proliferare minuscoli insetti, esseri vischiosi e retrattili (gli ‘scarabangeli’) che si annunciano con «gridetti di barbagianni» e sembrano mossi da un’oscura determinazione a ridurre, giorno dopo giorno, il suo spazio vitale. Se la materia del romanzo è così sfuggente e gelatinosa[14], il linguaggio che lo sostiene è tuttavia compatto e al tempo stesso prezioso e sottoposto ad un rigoroso controllo.
Ma cosa fa Ombres quando, per la prima volta in prosa, si occupa della condizione femminile, e per giunta di una intellettuale, se non trascrivere minuziosamente le sensazioni di un corpo sessualmente definito in un discorso narrativo?  
Alla varietà di letture, se ne potrebbe tentare anche una di tipo ‘mistico’, seguendo la nozione di ‘divinità delle donne’ e le indicazioni elaborate dalla filosofa Luce Irigaray[15], secondo cui nell’isolamento e nella clausura che la protagonista si è imposta si celebra la divinità del proprio genere che, come esperienza specificamente femminile, si rivela essere un trascendere i limiti dell’umano.
Il fatto è che dando forma all’abietto, semiotico per eccellenza, con una particolare predilezione per gli aspetti corporei e più viscerali del corpo femminile, Ombres si dichiara apertamente contro quelle modalità religiose e poetiche del simbolico che, per Julia Kristeva, sono i soli modi (patriarcali) di contenere l’abietto[16]. Ciò significa che al suo esordio narrativo Ombres ha già ben chiaro che il punto di partenza per una ridefinizione della soggettività femminile è una nuova forma di materialismo da cui deve prendere forma un nuovo concetto di materialità corporea, sottolineando la struttura incarnata e quindi sessualmente differenziata del soggetto parlante. La narrazione in prima persona di Principessa Giacinta è, infatti, saldamente legata all’influenza femminista di quegli anni, quando le donne, rivendicando il loro diritto a rappresentarsi, lo fanno affermando risolutamente la loro identità sessuata[17]. Ecco, dunque, che il monologo in prima persona di una protagonista donna esclude, in Ombres, la costruzione di una narrazione coerente, e ciò dà anche un’idea di ciò che significa, nella narrativa femminile, far uso del fantastico. Tutto quel che vien detto dalla protagonista risulta, infatti, dubbio, a tal punto che il lettore deve ricostruire in proprio quanto succede, ma con l’ausilio di alcuni puntuali e costanti punti di riferimento, che Ombres, seguendo quello che Diderot avrebbe chiamato l’‘ordine sordo’ dei temi, delle riprese e delle variazioni, dissemina in tutta la trama del racconto dotandolo di un’impressionante solidità architettonica[18].
Interessante, in tal senso, il raffronto che l’italianista Danielle Hipkins propone fra Principessa Giacinta e Il doppio regno, un’opera del 1991 di Paola Capriolo che, presentando anch’essa un soggetto femminile all’interno di un luogo chiuso, ‘sacro’ e misterioso, risulta tematicamente simile al romanzo ombresiano[19]. Anche se entrambi i romanzi hanno forma diaristica, le due protagoniste contrastano tra loro per un differente livello di autoconsapevolezza. Infatti, con paradossale chiarezza di ragionamento la protagonista della Capriolo invita il lettore a desumere con lei ciò che costituisce la sua esperienza passata e quella presente. Al contrario, in Principessa la protagonista ‘costringe’ il lettore a indagare sul suo presente e su ciò che è stato il suo passato ma senza curarsene affatto. Inoltre, se nella narrazione della Capriolo gli spazi fisici sono definiti e facilmente individuabili, in Principessa, dove la protagonista trascorre la maggior parte del suo tempo in un appartamento a Roma o in una stanza d’albergo a Venezia, questi due spazi si confondono fino a diventare la stessa cosa, perché non v’è alcuna indicazione, né spaziale né temporale, dell’eventuale passaggio da un luogo all’altro. Lo spazio ombresiano appare quindi - secondo la brillante immagine offerta dalla dt. Hipkins - come un disegno di Escher, ossia una struttura da sogno (quindi più mentale che reale) in cui uno spazio interno si dispiega in un altro, senza che mai si possa essere consapevoli del luogo fisico che il protagonista-narratore sta attraversando[20]. Lo spazio diventa pertanto uno spazio per un’introspezione più intensa e per una più serrata rinegoziazione dell’identità femminile, con la conseguenza, però, che nel lettore rimane in sospeso, o viene messo in discussione, il confine stesso che dovrebbe separare e far distinguere sanità mentale e follia. Quando poi il lettore incontra la doppia identità della protagonista, quando cioè questa si dissocia da sé e si identifica sempre più in Katharina von Bora, non può far altro che prestarsi al ‘malvagio’ e irrispettoso gioco d’intelligenza che Ombres mette in campo, obbligandolo a ricorrere alla storia e alla filologia per spiegarsi la vicenda.
La donna che Rossana Ombres esprime con Principessa Giacinta è, dunque, una donna che ha perso la memoria, non distingue più la realtà dal sogno e risulta, sostanzialmente, affetta da una schiacciante schizofrenia. Inoltre, sembra che non abbia futuro, perché manca delle facoltà che possono metterla in grado di superare questo continuo  stato di prostrante delirio.
Ma in Principessa, secondo le eloquenti parole della giuria del Premio Sila, si parla anche del destino comune dell’uomo contemporaneo, incapace di riconoscersi nel mondo in cui è costretto a vivere[21].
Il romanzo è anche il racconto di una creatività in crisi: gli ‘scarabangeli’, infatti, o ‘loro’, come li chiama la protagonista, bloccano la sua scrittura e la sua lettura con il loro proliferare e dilagare sui libri e sulla scrivania di lei. Pian piano questi esseri minuscoli s’impadroniscono di tutti gli angoli della stanza, le imbrattano i libri, s’insediano nella sua macchina da scrivere, nelle scarpe, nelle abatjour. Il neologismo che Ombres adotta per designare queste creature (coniato in realtà per L’ipotesi di Agar), le cui mutazioni e migrazioni la protagonista guarda con un misto di orrore e di fascino, rivela insieme il segno di un timore religioso per gli angeli custodi e un senso di repulsione fisica per gli insetti. Ma, a ben vedere, anche qui troviamo quel senso di ambiguità che denota un po’ tutta la scrittura ombresiana di questo romanzo. La stessa ambiguità la ritroviamo, infatti, nella rappresentazione del corpo e delle funzionalità corporee. A volte sembra si tratti di una custodia da preservare a tutti i costi (come i gigli, simbolo di purezza, di cui la protagonista si attornia), con un ossessivo rifiuto del sesso e, accanto, una esagerata assunzione di farmaci il cui fine è soltanto quello di contrastare il naturale processo di invecchiamento e di decadimento fisico. Nello stesso tempo, però, la protagonista, dopo aver rifiutato e fuggito la specificità del proprio corpo sessuato, assumendo l’identità di Katherina von Bora, madre di molti figli e moglie premurosa dell’uomo che ha lanciato la maggior sfida alla fede cattolica, manifesta un processo mentale che denota una diversa concezione del corpo, non più di vergine ma di madre e sposa[22]. È qui, infatti, che la scrittura di Ombres comincia a far emergere un linguaggio di tipo simbolico-religioso, che, come espressione del tentativo di una riappropriazione del sé, trasforma il diario della protagonista in una elucubrazione mistico-psicologica (con grande irriverenza sia per la religione che per la psicanalisi) che trova la sua più consona e ideale espressione nel ‘puramente’ fantastico, come già la dt. Hipkins ha acutamente segnalato [23]. 
Sebbene Principessa Giacinta descriva minuziosamente lo stato di psicosi di cui è vittima la protagonista, è ben lungi dall’essere il racconto di una fuga dalla realtà, anche se dolorosa. É, piuttosto, l’espressione e la celebrazione di un ‘infinito sé’ femminile, come la Hipkins ha mirabilmente definito il romanzo[24]. Infatti, anche se questo sé subisce perdite e traumi, Rossana Ombres non intende affatto basare il suo romanzo su tali sofferenze. Rivelatore e illuminante, in tal senso, può essere già il titolo: Giacinta (da ‘giacinto’), nel linguaggio dei fiori significa  ‘separazione’, può anche significare ‘gioco’, ‘divertimento’. E che cosa fa Ombres, nel manipolare abilmente le sue carte, se non dar vita ad un creativo sistema di rimandi mnemonici in cui l’aspetto ludico ha una parte tutt’altro che trascurabile? Principessa Giacinta rimanda, infatti, al titolo di una litografia realizzata per una rappresentazione teatrale dal pittore art nouveau Alphonse Mucha (che Ombres inserirà poi tra le sue ‘cartoline’ di Le belle statuine), in cui una regale e splendida dama, con alle spalle la rappresentazione del cosmo, tiene in mano un astrolabio, strumento-simbolo dei navigatori che indica la posizione delle stelle viste da una certa latitudine. Uno strumento di calcolo, dunque, con cui i marinai potevano riconoscere la loro posizione dalla disposizione degli astri, ma anche, e soprattutto, un misuratore di relazioni armoniche che Giacinta (cioè Ombres) è in grado di usare e ne è pienamente consapevole, come si vede dal modo sicuro ed elegante con cui tiene in mano lo strumento.
Ma ‘principessa’, termine che indica insieme lo status regale ma anche il genere del personaggio, significa anche che i suoi poteri (di creatività) sono limitati dalla sua identità sessuale. Tuttavia, il fatto che la protagonista del romanzo si sia autoreclusa in uno spazio-recinto che è anche luogo protettivo, rimanda alla nozione di creatività, ossia a uno spazio in cui dei mondi possono essere creati[25]. L’incanto della recinzione è, infatti, l’essenza di questo romanzo, e l’ammissione esuberante della natura sessuata di questa recinzione alla fine non può che condurre verso una più decisa uscita da questo recinto. Ed è ciò che, con uno slancio di geniale creatività narrativa, Ombres riesce a fare: attraverso l’uso del fantastico, con cui opera, all’interno del racconto, una frammentazione della dimensione spaziale, Ombres rompe e travalica i confini della narrativa canonica italiana. Ecco, dunque, che rompendo con le nozioni spaziali di interno e esterno l’immaginazione femminile può trascendere i limiti prefissati, e che questo ‘oltrepassare il limite’ del ‘recinto’ esistenziale imposto dalla cultura patriarcale tradizionale emerge come un potente modello per la scrittura non solo delle donne ma di chi ancora viene emarginato come minoranza.
Il romanzo termina su un ultimo brandello di frase della protagonista, che rimane in attesa di consumare un’improbabile notte di nozze. Ma anche questa è una ‘ipotesi di Agar’, per rifarci al titolo della raccolta poetica che precede Principessa Giacinta, che, a sua volta, rimane un’opera ‘aperta’ e soggetta a una svariata gamma di significati. Una prova quindi di alta complessità strutturale che, improntata sulla decostruzione della personalità di un’intellettuale, senza però mai scadere nell’artificiosità fine a se stessa, è un’ennesima prova dell’elegante e affascinante scrittura ombresiana, davvero pazientemente e ‘scientificamente’ preparata da anni di sapiente costruzione poetica[26].

  

































  

Alphonse Mucha, Princezna Hyacinta
(the original lithograph was printed in Prague, 1911)



[1] A.M. Morace, Orbite novecentesche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 311.
[2] A breve dedicherò un articolo alla poesia ombresiana (ndr).
[4] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale, Pellegrini, Cosenza 1997, p. 124.
[5] Il riferimento, ovviamente, è al Gruppo 63, i cui nomi di punta erano Nanni Balestrini, Renato Barilli, Edoardo Sanguineti, Carlo Porta, Luciano Anceschi, Alberto Arbasino, Umberto Eco e altri ancora. Al convegno all’hotel Zagarella di Palermo, atto fondativo del gruppo (3-8 ottobre 1963), vi partecipò anche Rossana Ombres (ndr).
[6] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37.
[7] G. Del Colle, Il delirio oscuro di Rossana Ombres, in “Stampa Sera”, 20-21 marzo 1970, p. 3.
[8] Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, v. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 193.
[9] Cfr. G. Bataille, Informe, in ‘Documents’, 7, 1929 ; tr. it. a cura di Sergio Finzi, Documents, Dedalo, Bari 1974, p. 165.
[10] C. Paglia, Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti to Emily Dickinson, Yale University Press, London 1990; tr. it. Einaudi 1993.
[11] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, in G. Grana (a cura di), Novecento. I contemporanei, vol. X, Marzorati, Milano 1979, p. 10167.
[12] Cfr. D.E. Hipkins, Excessively Fantastic? Rossana Ombres’s Serenata, in F. Billiani, G. Sulis (Eds), The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Narrative Traditions, Fairleigh Dickinson University Press, London 2007, pp. 188-209.
[14] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10164.
[15] L. Irigaray, Femmes divines, in “Critique”, 1985, p. 454.
[16] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 170.
[17] R. Braidotti, Nomadic Subjects: Embodiment and Difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia University Press, New York 1994, p. 3 (tr. it. Nuovi soggetti nomadi, a cura di Anna Maria Crispino, Luca Sossella Editore, Roma 2002 ; cfr. anche D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 170.
[18] I. Margoni, Rossana Ombres, in G. Grana (a cura di), Novecento. I contemporanei, cit., p. 10170.
[19] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., pp. 172-173.
[20] Ibidem, p. 172.
[21] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale, cit., p. 125.
[22] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 173.
[23] Ibidem, p. 174.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem, p. 173.
[26] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10165.

martedì 28 ottobre 2014

Ricordare Rossana Ombres (1931-2009). Verso un’apertura europea del canone letterario italiano

In un momento in cui il concetto stesso di letteratura viene discusso sempre più diffusamente anche in ambito non accademico, con uno sguardo più aperto verso questioni di critica, politica editoriale, mercato e nuovi media, di tutte le interpretazioni che si potrebbero dare oggi dell’opera di Rossana Ombres non si trova ancora alcun riscontro all’interno della critica ufficiale. Qualcosa è stato fatto, in questi ultimi anni, in area anglo-sassone, anche se l’opera narrativa ombresiana è stata analizzata e valorizzata soltanto secondo quella prospettiva che vede nell’uso del fantastico femminile una modalità scrittoria idonea e capace di incidere sul canone letterario, ossia un modo per mettere in discussione gli stereotipi, anche femminili, che la cultura tradizionale italiana ha tramandato.
Ma la scelta di far uso del fantastico da parte di Ombres non era fondata soltanto sulle possibilità espressive che questo genere letterario offre. Certamente mirava a convogliare nella sua scrittura una sensibilità differente, mantenendo quel suo stato di alterità femminile che le consentisse pienamente quel simpatetico dialogo con il lato irrazionale della realtà - impersonato variamente nella figura del mostro, dell’abietto o di altre varie creature reali o immaginarie (si pensi, in questo senso, agli ‘scarabangeli’ presenti in Principessa Giacinta) - ma questa ‘femminile’ inclinazione verso il fantastico tendeva a definirsi essenzialmente come opposizione a quella interpretazione razionale e razionalistica della realtà che, in gran parte, almeno fino ai primi anni Settanta del secolo scorso, era quella offerta dalla narrativa neorealista italiana.
Nel corso di questo scritto si accennerà diffusamente a come Rossana Ombres pervenne al romanzo, una scrittura narrativa che risente profondamente di un lungo e appassionato esercizio di poesia la cui qualità segnica e semantica fu subito riconosciuta da critici e letterati. Anche fosse solo per questo, l’interesse che l’opera di Rossana Ombres dovrebbe suscitare nella critica sarebbe oggi pienamente giustificabile perché tocca dimensioni storiche ed esistenziali della scrittura femminile, dell’emancipazione della donna e delle immagini che le donne hanno dato e danno di sé, del loro coraggio e della loro intelligenza. Infatti, la ricchezza, la chiarezza e, nel contempo, la complessità del linguaggio ombresiano, gli intrecci culturali che vengono a realizzarsi nella sua scrittura, indicano che molti sarebbero gli aspetti da rilevare e chiarire: non solo linguistici e letterari, ma anche epistemologici, psicologici, storici e sociali. Riaprire il discorso su Rossana Ombres e riscoprire l’importanza del suo lavoro letterario e del suo particolare ‘sguardo’ significherebbe, pertanto, dare un apporto significativo alla critica letteraria e, soprattutto, attraverso queste nuove chiavi di lettura, aprire nuove prospettive di sviluppo particolarmente importanti non solo sul piano specifico del linguaggio e della scrittura, ma anche su quello socio-culturale, politico, filosofico e antropologico.
Lo sguardo ombresiano (come anche quello di molte altre scrittrici), incline per natura a testimoniare un modo differente di abitare e leggere il mondo, invita dunque a riflettere sulle modalità di scrittura di Rossana Ombres e sollecita anche a chiedersi perché, nonostante la sua notevole capacità di introspezione, acquisita anche grazie all’apporto del segno poetico nella composizione narrativa, non trovi ancora sufficiente riscontro nella letteratura ‘alta’. Infatti, se è vero che la padronanza del linguaggio equivale alla padronanza del mondo che la persona costruisce per viverci dentro, gli studi su Ombres permetterebbero di tracciare sviluppi non solo ricchi di informazioni e suggestioni, ma, come afferma il celebre filosofo della mente Thomas Nagel, esistenzialmente vitali, capaci cioè di elaborare un sapere legato ad una realtà ricca di significati il cui scopo principale è quello di «collocarci nel mondo come in una cornice comprensiva, insieme ai punti di vista personali che ci sono propri»[1].
Come quello di molti scrittori del XIX secolo, l’uso che Ombres fa del fantastico è spesso altamente intertestuale[2], il che dimostra il potenziale semantico che questo genere letterario possiede. Tuttavia, violando le stesse regole del fantastico, eludendo e, essenzialmente, ‘deludendo’ nel lettore il senso di ‘misurata esitazione’ che, come teorizzato da Tzvetan Todorov[3], ne sta alla base, il fantastico ombresiano, almeno fino a Serenata (1980), si attua per ‘eccesso’, col fine specifico di riconfigurare, e chiaramente affermare, il ruolo svolto dal soggetto femminile all’interno dell’ordine letterario e, più in generale, di quello sociale, politico e culturale. Per Ombres, dunque, il fantastico è un utile strumento per contestare e mettere in discussione le regole socio-culturali, oltre che affermare quel sé femminile che l’ordine patriarcale ha sempre tentato di reprimere, spesso con successo.
Sin dai suoi esordi, Ombres rifiuta un tipo di narrazione ‘ridondante’, saldamente in mano a un narratore onnisciente in grado di fornire esaustive spiegazioni psicologiche, etiche e sociali degli eventi narrati, instradando in tal modo l’interpretazione del lettore in una univoca e specifica direzione. Ombres adotta invece un tipo di narrazione ‘reticente’ (che è poi tipica della narrazione fantastica), ma così manchevole e carente tanto di puntelli esplicativi quanto di informazioni, indispensabili per una benché minima decodificazione, che giustifica l’eloquente qualificazione che la dt. Hipkins assegna alla prima maniera ombresiana come di ‘eccessivamente fantastica’.
Negli ultimi due romanzi, invece, pur mantenendo una ‘traccia’ di fantastico nel corpo delle protagoniste, Rossana Ombres si avvicina ad una narrazione di tipo neorealista, anche se rimane un certo grado di reticenza soprattutto per quanto riguarda la ‘traccia’ di fantastico che l’accompagna: si pensi, in questo senso, alla ‘anomalia’ della protagonista di Un dio coperto di rose, forse un ‘gobbo’, che segna il corpo e anche la psiche della protagonista e che però non troverà soluzione alcuna all’interno del romanzo. Certo è che se un margine di reticenza è rintracciabile in diversa misura in qualsiasi opera letteraria, nondimeno esistono casi in cui l’uso del silenzio sulla narrazione si fa più categorico che altrove e i vuoti o le indeterminatezze del testo, oltre ad essere dei dispositivi per creare suspense, costituiscono le vere e proprie strutture portanti di tutto l’edificio narrativo ombresiano. Questo è ciò che accade nel racconto fantastico che Ombres mette in piedi, la cui tendenziale trasgressività semantica può essere fatta risalire proprio all’accordo tra un contenuto oscuro e abissale e una strategia narrativa improntata alla reticenza e alla sottrazione d’informazione. Nelle analisi testuali delle opere ombresiane appare evidente come, dosando in modo diverso il non-detto (si confrontino, ad esempio, Principessa Giacinta e Un dio coperto di rose), scaturiscano vicende il cui grado di dirompenza e di densità semantica è direttamente proporzionale al grado di reticenza esplicativa insito nel racconto.
In effetti, per la sua natura ibrida e il rifiuto di una visione totalizzante della realtà per accogliere inconsueti e inquietanti ‘altri’ nello spazio domestico, il genere fantastico può essere usato sia per sperimentare nuove soluzioni narrative sia per esplorare alternativi paradigmi conoscitivi e gnoseologici. Il fantastico femminile, infatti, fornisce una narrazione e una soluzione semantica che permette all’‘alterità’ di emergere da quel che si ritiene il reale. In questo modo, la realtà può essere rappresentata anche nella sua ‘stranezza’, sia essa quella del ‘mostro’ o dell’isteria femminile o quella, ben più dirompente, di una critica sociale dell’ordine patriarcale e dei valori della cultura maschio-dominante che vi sottendono. Ciò che comunque caratterizza e differenzia il fantastico femminile dal fantastico in generale è l’ipotesi che le manifestazioni dell’‘alterità’ non provocano più inquietudine, come avveniva con l’inserimento dell’elemento ‘perturbante’ (il freudiano Unheimliche), ma, piuttosto, un surplus di pathos. Ecco, dunque, che questa modifica concettuale del genere fantastico offre alla scrittrice un formato narrativo alternativo con cui non solo può rappresentare l’inversione di quelle strutture di potere che in precedenza avevano modellato la comprensione della realtà, ma anche, di conseguenza, proporre un nuovo ordine e una diversa sistematizzazione del reale. L’uso del fantastico da parte di Ombres denota quindi una concezione letteraria che considera il fantastico un utile strumento non solo per formulare strategie di resistenza verso la scrittura maschile ma, ben più in profondità, verso il canone letterario maschio-dominante, il cui paradigma conoscitivo Ombres cercherà costantemente di mettere in discussione.
Da questa indagine emerge così la necessità di valorizzare un particolare tipo di sguardo, quello di donna, con cui vengono raccontati i fatti del mondo, uno sguardo che esclude qualsiasi segno di neutralità e che si carica della consapevolezza, specie quando si tratta di narrare dell’esclusione delle donne dal canone, di dover offrire una scrittura non più modellata sui bisogni della cultura maschio-dominante e sull’inganno di una scrittura, quella maschile, propagandata come universale. D’altronde è proprio da qui che ha preso le mosse questo studio su Rossana Ombres, ossia quello di rintracciare, nella pur amplissima diversificazione tematica e strutturale della narrativa ombresiana, gli inneschi e i dispositivi della sua ‘trasgressione’ nella persuasione che a scatenarne e orientarne il funzionamento sono meccanismi e intenti sostanzialmente simili e complementari: la rottura del canone maschio-dominante e la creazione di uno specifico spazio letterario femminile.
Alla ‘prima maniera’ ombresiana, quella ‘eccessivamente fantastica’ che giunge fino a Serenata (1980), succede infatti quella degli ultimi due romanzi, che la dt. Hipkins ha definito della ‘creazione del sacro spazio femminile’[4]. Come sarà in seguito rilevato in questo scritto, sia in Un dio coperto di rose (1993) che in Baiadera (1997) Ombres adotta un linguaggio piano e molto prossimo alla narrativa di stampo neorealista. Tuttavia, pur mantenendo una ‘traccia’ di fantastico nelle disabilità fisiche delle protagoniste, la maggior attenzione verso il contesto storico e i luoghi geografici sta a indicare un obiettivo ben preciso: quello, appunto, che porti alla creazione, attraverso lo sguardo femminile, di un nuovo spazio narrativo in cui sono le donne a definirne le forme e i significati.
Certo, a parte poche eccezioni, la critica letteraria italiana finora non ha dedicato grande attenzione alla letteratura femminile, forse perché essa induce a ripensare il modello compatto della nostra letteratura mettendo in discussione i criteri di fondo con i quali ancora si definisce e si valuta la letterarietà. Esiste, infatti, un profondo distacco tra la critica letteraria e la proliferazione delle molteplici pratiche letterarie femminili e questo riconoscimento potrebbe essere un punto di partenza per una ridefinizione dei criteri critico-metodologici e adeguare in tal modo il canone italiano a quello europeo. Il fatto è che la produzione letteraria femminile fa vacillare una serie di assunti - come i regimi disciplinari, i generi letterari o le periodizzazioni - che troppo spesso vengono ancora dati per scontati e incontrovertibili. Inoltre, l’attuale prorompere della letteratura femminile costringe chi si occupa oggi di critica letteraria ad allargare la visione anche verso altri tipi di ‘sguardi’, come ad esempio quello migrante[5], che stanno costringendo il mondo intellettuale europeo a confrontarsi da tempo coi temi della differenza e dell’alterità. Nella letteratura europea contemporanea, infatti, è in corso una radicale trasformazione dovuta alle nuove soggettività che stanno delineano l’immagine multiculturale dell’Europa d’oggi. Di qui l’esigenza di produrre modelli interpretativi ed epistemologici che non siano più basati sull’esclusione o la discriminazione, nonché la possibilità di aprire nuovi spazi creativi e alternativi per la rappresentazione della soggettività e, quindi, la capacità della letteratura di rappresentare le molteplicità e la complessità della realtà contemporanea.
Non si tratta, quindi, di istituire un nuovo settore letterario (o un ‘sub-genere’) in cui definire e delimitare la letterarietà femminile, quanto, piuttosto, provare a stringere delle alleanze tra esclusi che siano in grado di proporre strategie alternative e oppositive contro le dominazioni di genere, di razza o di classe. Come afferma la filosofa statunitense Donna Haraway, che «non c’è nulla nell’essere femmina che costituisca un legame naturale tra le donne»[6], non si può pretendere di costruire un’azione politica o culturale soltanto sulla base di un’identificazione naturale nella categoria ‘donna’. Lo stesso vale quando si analizza la storiografia letteraria, dove non si può affermare l’esistenza di una ‘sensibilità femminile’, o di un ‘genio femminile unico’, perché «non esiste, in letteratura, una sola tradizione femminile; non esiste una sola espressione letteraria a cui le donne si siano limitate»[7]. Anzi, sostenere la specificità di uno stile femminile significherebbe solo riprodurre uno di quegli stereotipi che finirebbe per ghettizzare le donne, piuttosto che contribuire al riconoscimento della loro presenza nella tradizione letteraria.
Ecco, dunque, che l’analisi degli aspetti più stimolanti che la narrativa di Rossana Ombres sollecita, non solo si rivela ricca di suggestioni e proposte per aggiornare e adeguare il canone letterario italiano a quello europeo, ma suggerisce la necessità di elaborare una mappa concettuale ben più ampia e aggiornata e capace di accogliere in sé il dispiegarsi delle diverse forme di poligrafia. Del resto, l’attività che più impegnò Rossana Ombres fu quella pubblica di critico letterario per ‘La Stampa’, i cui articoli, grazie anche alla capacità di introspezione acquisita nella composizione letteraria, presentano quella originalità e ‘leggerezza’ di scrittura che rendono l’opera di Ombres un importante caso letterario da reinterpretare e valorizzare in tutte le sue forme d’espressione. Dedicarle uno studio esauriente «sarebbe un giusto omaggio a una poetessa e narratrice che, alla distanza, prende sempre più spicco; e valorizzerebbe un tipo di sperimentalismo cui non si è data tutta l’attenzione che merita»[8].


[1] T. Nagel, Mortal Questions, Cambridge University Press, Cambridge 1979; tr. it., Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 98.
[2] Molto utile, per capire meglio l’opera di Ombres, sarebbe fare una ricerca sulla sua attività di critico letterario de ‘La Stampa’, e ciò in considerazione del carattere intertestuale di molte sue opere: si pensi, in questo senso, a Principessa Giacinta e Serenata, in cui le protagoniste sono rispettivamente una scrittrice fallita e un affermato critico letterario.
[3] Cfr. T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Editions du Seuil, Paris 1970; tr. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977.
[4] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, Legenda, Oxford 2007, p. 192.
[5] Cfr. A. Gnisci, La letteratura italiana della migrazione, Lilith, Roma 1998.
[6] D.J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 47.
[7] E. Moers, Grandi scrittrici, grandi letterate, Edizioni Comunità, Milano 1979, p. 104.
[8] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37.

Il canone letterario italiano e le ragioni di un’esclusione. Il clamoroso caso di Rossana Ombres (1931-2009)

Premessa 

Questo scritto, che ha preso origine da importanti ricerche di alcune italianiste d’area anglo-sassone e francese[1], è il primo di una serie che riguarda l’opera e la scrittura di una scrittrice italiana recentemente scomparsa (2009).
Praticamente sconosciuta al grande pubblico, il nome di questa scrittrice d’altro canto non dice molto, se non forse a coloro che, in ambito editoriale e giornalistico, l’hanno conosciuta: è stata per trent’anni redattrice de ‘La Stampa’ di Torino per la sezione cultura.
Al lettore medio italiano (e alla lettrice media italiana), dunque, il suo nome non dice praticamente nulla. Mai pubblicizzata (tantomeno dalla sua casa editrice Mondadori, che l’ha volutamente tenuta a lungo e tiene ancora chiusa ‘in un cassetto’) questa scrittrice, infatti, resta ancora nell’ombra, come d’altronde viene in mente quando si pronuncia il suo nome: Rossana Ombres, una donna ‘in ombra’ o, per dir meglio, lasciata ‘in ombra’, ‘oscurata’.
Rossana Ombres, però, resta un fenomeno emblematico di come la cultura e il canone letterario italiano reagiscono di fronte al fenomeno femminile che si esprime nella sua creazione. La dt. Danielle Hipkins, italianista di fama dell’University of Exeter, ha tentato recentemente di darne delle spiegazioni[2], che restano però marginali se guardiamo al panorama letterario e culturale italiano nel suo complesso. È importante, tuttavia, che ci si chieda per quale motivo una scrittura così ricca di spunti linguistici e pregevole espressione di una ‘diversa’ e potente sensibilità possa scomparire all’improvviso senza lasciar traccia di sé; che cosa induce la politica editoriale a cassare uno scrittore nonostante questi abbia ricevuto importanti riconoscimenti critici; che cosa si può fare affinché una pluralità di sensibilità diventi finalmente la struttura portante di un discorso culturale non più di esclusione ma di concreta e effettiva integrazione di tutte le voci. Qui, dunque, non si parla soltanto di ‘scrittura al femminile’, ma della politica culturale che sta alla base del canone letterario italiano, il più ‘esclusivo’ e mai veramente aperto, accogliente, in movimento, onnicomprensivo e plurale come invece avviene oggi in gran parte degli altri paesi europei.


Il canone letterario italiano e le ragioni di una esclusione.
Il clamoroso caso di Rossana Ombres (1931-2009)

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«Scesa sempre più in fondo nel silenzio…». Così l’illustre e apprezzato critico letterario Cesare Segre apriva il suo elzeviro sul ‘Corriere della Sera’ dedicato a Rossana Ombres alcuni giorni dopo la sua morte (2009)[3]. Eppure con i suoi testi poetici e narrativi Ombres aveva sin da subito colpito entusiasticamente i critici, che ne coglievano prontamente l’originalità sia linguistica che tematica. Come spiegare, allora, questa ‘rimozione’, per usare un termine ormai divenuto usuale quando si parla di scrittura femminile in relazione al canone letterario italiano?[4]. Rileggendo Ombres, infatti, con il suo inconfondibile stile, da cui emerge uno studio profondo sulla lingua e sulla parola, ricco di rinvii letterari che si mescolano ad allusioni bibliche, talmudiche e talvolta anche cabalistiche, sembra impossibile che questa scrittrice non abbia trovato in Italia quel dovuto riconoscimento letterario e editoriale che merita. Una vaga e lievemente plausibile spiegazione potrebbe trarsi da un’intervista che la scrittrice rilasciò dopo l’uscita del suo penultimo romanzo Un dio coperto di rose (1993): «Non posso dire di avere maestri o modelli, e neppure compagni di strada, scrittori che sento vicini. Sono una scrittrice solitaria»[5]. Nominata Accademico d’Italia, scrittrice di chiara fama[6] e Commendatore, non sono bastati gli apprezzamenti di fini critici per renderle ragione e dare finalmente ascolto alla sua voce autentica e allo stesso tempo originale. Ombres, dunque, non ebbe affinità con nessun altro/a scrittore, nessuna modalità scrittoria vicina a qualsivoglia scuola o tendenza poetica; è stata una scrittrice solitaria, superba, una ‘anacoreta della parola’, come la definì fondatamente il poeta italiano Andrea Breda Minello[7]. Nella poesia, infatti, intento di Ombres fu sempre quello di riappropriarsi della parola, ormai consunta e impoverita dagli epigoni dell’ermetismo e del grande realismo. La sua poesia fu una vera e propria rimessa in questione della parola, del suo suono, delle sue radici e delle sue ragioni, senza esonerarla, come fu con l’ermetismo, dal suo dovere di dover significare, ma anzi arricchendone le proiezioni morfologiche facendola esprimere attraverso tutte le sue innumerevoli possibilità. Questo, dunque, fu Rossana Ombres, che prima di dedicarsi alla narrativa aveva compiuto un profondo lavoro di scavo e di ricognizione a livello poetico per riportare la parola a riacquistare le sue potenzialità.
Occorre considerare, tuttavia, che a differenza delle altre culture occidentali in Italia le conseguenze di una plurisecolare esclusione delle donne dalla produzione artistica ha ancora un impatto significativo non solo sulla loro scrittura ma anche sull’immagine che le donne vogliono darsi[8]. Di conseguenza è necessario indagare su come e perché alcune scrittrici italiane contemporanee si sono occupate e hanno sperimentato una modalità scrittoria tipica del canone letterario maschio-dominante europeo come quella del romanzo fantastico. Infatti, secondo l’italianista inglese Danielle Hipkins, è all’interno di questo genere letterario che le donne hanno trovato e possono trovare le occasioni per trasgredire consapevolmente molti confini testuali e, riformando la lingua, rimodellare anche le nozioni del sé e della realtà[9]. È vero che nell’immaginario pubblico, come negli ambienti accademici, il fantastico narrativo è sempre stato considerato un genere d’evasione per l’accento sull’elemento ‘meraviglioso’ che lo caratterizza. Ma questo tipo di considerazione, in realtà, sembra mascherare il sospetto, se non l’avversione, nei confronti del fantastico come genere letterario perché ritenuto frutto ed espressione di una qualche ‘irresponsabilità’, etica, politica o sociale, che, in realtà, sottende spesso al messaggio che la letteratura fantastica vuole e intende trasmettere. Numerose, infatti, sono le manifestazioni fantastiche contemporanee (nella letteratura, nell’arte, nel pensiero) che possiedono una carica autenticamente eversiva nei confronti del sistema simbolico dominante e, spesso, in questa ‘vocazione’ alla trasgressione, in cui risiedono uno degli scarti più significativi della letteratura recente, sono ‘implicate’ delle donne. La dt. Hipkins afferma, tuttavia, che il ritardato riconoscimento dei diritti politici e sociali alle donne italiane, in combinazione con una forte tradizione realistica sorta sotto gli auspici del romanzo manzoniano[10], sono i motivi principali per una situazione culturale molto diversa da quella d’area anglo-sassone, ed è per questo che intravede nel fantastico femminile italiano una potente ed efficace forma di trasgressione letteraria che a volte appare anche come una ‘feroce’ reazione delle donne scrittrici al canone letterario maschio-dominante italiano e ai relativi modelli culturali, oltre che simbolici, che vi sottendono.
In effetti, la scelta di far uso del fantastico da parte di Ombres non è fondata soltanto sul fatto che sia un genere letterario che consente un discreto margine di libertà d’espressione - anche se Ombres mira a convogliarvi una sensibilità differente che si pone in un serrato dialogo con il lato irrazionale della realtà - ma è anche la chiara manifestazione di quella ‘feminine’ inclinazione che tende a definirsi proprio in opposizione a un’interpretazione razionale e razionalistica del reale, com’era ed è, in gran parte, quella offerta dalla narrativa maschio-dominante di stampo neorealista.
Nella prima parte di questo saggio, quindi, dopo una breve indagine sulle principali questioni che riguardano la scrittura femminile in Italia, la persistente esclusione delle donne dal canone letterario e i più recenti approcci teorici al fantastico ‘femminile’, proverò a illustrare la fortuna che questo genere letterario ha avuto nel contesto italiano, soffermandomi soprattutto su quel concetto dell’italianistica anglo-sassone, il ‘Mythic revisionism’[11], che sembra trovi importanti anticipazioni nell’unica opera teatrale ombresiana (Orfeo che amò Orfeo, 1974), come l’italianista Lucia Re ha bene messo in luce riferendosi all’opera di Rossana Ombres, ritenendolo, insieme all’uso del fantastico, alla base del tentativo ombresiano, e non solo, di scardinare il paradigma letterario neorealista italiano.
Proseguirò poi con l’analisi delle opere narrative di Rossana Ombres, dando inizialmente un giusto rilievo alla sua opera poetica, che meriterebbe un approfondimento a parte per l’originalissima cifra stilistica che la caratterizza. La poesia ombresiana[12], infatti, presenta una tale estraneità dalle correnti letterarie contemporanee che andrebbero ricercate le coordinate su cui è stata imbastita. In effetti, il grande lavorio ombresiano sulla parola ha dato risultati che, a tutt’oggi, sembra esulino ancora da gran parte del panorama poetico contemporaneo. Sin dagli esordi, infatti, il gusto del segno espressivo e le misurate scelte linguistiche che non cedono mai alla suggestione elegiaca, fanno della poesia ombresiana un vero tesoro con il quale sarebbe bene che la critica contemporanea cominciasse a misurarsi, soprattutto mettendola a confronto con la creazione poetica di quegli anni in cui dominava ancora il minimalismo della poesia ermetica e dei suoi epigoni.
Nella parte relativa all’opera narrativa, invece, proverò a ricostruire quel percorso che ha condotto Ombres da un uso ‘eccessivo’ del fantastico dei primi romanzi[13] - in cui appare una spiccata predilezione per una turbata psiche femminile e per un’ambiguità narrativa che confonde i confini fra lato conscio e inconscio delle protagoniste e che, quindi, apparentemente esclude una narrazione coerente (soprattutto in Principessa Giacinta)[14] - ad una cadenza narrativa in cui, pur conservando una traccia di fantastico in una piccola e invisibile ‘anomalia’ fisica che caratterizza le protagoniste, Ombres si apre ad una scrittura dichiaratamente neorealista, che, più che un omaggio a quella tradizione, dimostra come l’intento di questa scrittrice sia proprio quello di ‘entrarci dentro’ per scardinarne i termini e contestarne il canone di riferimento, insieme al suo relativo sostrato simbolico. Si pensi, in tal senso, a Un dio coperto di rose e a Baiadera, i due ultimi romanzi ombresiani, in cui la narrativa di Ombres si concentra tutta sulla ‘creazione di un sacro spazio femminile’, come Danielle Hipkins ha efficacemente definito il tentativo ombresiano di dar vita ad un universo narrativo femminile, ossia uno spazio letterario in cui sono le donne, finalmente, a definirne le forme, i luoghi e i significati cercando di dar vita ad un nuovo e riformato canone letterario italiano.
Mi sembra utile terminare questa breve presentazione con le parole del comparatista Remo Ceserani, secondo il quale «La letteratura fantastica finge di raccontare una storia per poter raccontare altro»[15], ovvero indirizzerebbe i suoi sforzi verso quei modi e quelle tematiche che a volte vengono descritte come «compensazioni contingenti alle proibizioni sociali»[16], ma che, in realtà, la scrittura fantastica fa propri non tanto per esplorare l’area del naturale o del sovrannaturale, quanto piuttosto per sondare nuovi aspetti della vita che non erano esplorabili perché ancora rappresentati da un vecchio modello culturale, quello neo-realista e maschio-dominante, che soltanto ora comincia ad essere messo in discussione e che Rossana Ombres aveva già voluto contestare e caparbiamente riformare con la sua ‘straordinaria’ opera letteraria.


[1] Nomino qui quelle studiose che più hanno contribuito con le loro ricerche alla realizzazione di questo scritto: d’area anglo-sassone Danielle Hipkins, Francesca Billiani, Lucia Re, Rosi Braidotti, Donna Haraway, Camille Paglia e, d’area francese, Giovanna Zapperi, Luce Irigaray e Julia Kristeva. 
[2] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, Legenda, Oxford 2007, p. 30. 
[3] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37. 
[4] Cfr. M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Einaudi, Torino 1998. 
[5] A. Baricco, Punta al capolavoro altrimenti lascia perdere, intervista a Rossana Ombres, in “La Stampa”, 27 giugno 1993, p. 5. 
[6] Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, dopo aver pubblicato tre raccolte di poesie, la piemontese Rossana Ombres pubblica il suo primo romanzo: Principessa Giacinta (Rizzoli 1970), un’opera ben accolta dalla critica per l’intelligente sperimentalismo linguistico e per l’uso e il trattamento di tematiche alquanto originali con cui indaga, grazie alla sua scrittura ‘femminile’, la vita e la mente dei personaggi. Con questa sua prima opera narrativa Ombres vince il Premio Sila (1971), ad ex-aequo con un’opera tradizionalista di Loris Bonomi. Il suo terzo romanzo, Serenata (Mondadori 1980), è finalista al Premio Campiello, assegnato a Il fratello italiano di Giovanni Arpino, mentre con il quarto, Un dio coperto di rose (Mondadori 1993), vince il Premio Grinzane Cavour ed è finalista al Premio Strega, assegnato, dopo diverse polemiche, a Ninfa plebea di Domenico Rea (La più votata in tutte le preselezioni del premio, Ombres corse da sola, cioè senza l’appoggio del proprio editore che preferì convergere su Rea). 
[7] A. Breda Minello, Un po’ di luce sulla Ombres, in “Daemon”, anno III, n. 6, novembre 2002, p. 43. 
[8] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: The creation of Literary Space, cit., p. 1. 
[9] Ibidem, p. 2. 
[10] Ibidem, p. 30. 
[11] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, in “Quaderni d’Italianistica”, Canadian Society for Italian Studies, vol. 14, n. 1, 1993, pp. 75-109; reprint in M.O. Marotti (Ed.), Italian Women Writers from the Renaissance to the Present. Revising the Canon, Pennsylvania State University Press, University Park (PA) 1996, pp. 187-234. 
[12] Tra le opere di poesia di Rossana Ombres si ricordano: Orizzonte anche tu, Vallecchi, Firenze 1956; Le ciminiere di Casale, Feltrinelli, Milano 1962 (Premio Firenze); L’ipotesi di Agar, Einaudi, Torino 1968 (Premio Tarquinia-Cardarelli); Bestiario d’amore, Rizzoli, Milano 1974 (Premio Viareggio per la poesia; prima donna a vincerlo). 
13] Cfr. D.E. Hipkins, Excessively Fantastic? Rossana Ombres’s Serenata, in F. Billiani, G. Sulis (Eds), The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Narrative Traditions, Fairleigh Dickinson University Press, London 2007, pp. 188-209. 
[14] Indicativi, in tal senso, i rilievi dell’antropologa statunitense Camille Paglia sul carattere ctonio della scrittura femminile; cfr. C. Paglia, Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti to Emily Dickinson, Yale University Press, London 1990;  tr. it. Einaudi, Torino 1993. 
[15] R. Ceserani, Il fantastico, Il Mulino, Bologna 1996, p. 112. 
[16] R. Ceserani, Le radici storiche di un modo narrativo, in R. Ceserani (a cura di), La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa 1983, p. 34.